Nota: La sentenza in sintesi fissa i seguenti princìpi: L’art. 21-octies, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 l. 11 febbraio 2005, n. 15, non delinea un meccanismo di eccezione processuale in senso stretto, per cui sarebbe precluso al giudice amministrativo accertare d’ufficio quegli elementi ostativi all’annullamento. Il giudizio di legittimità è essenzialmente un giudizio di diritto su un’ipotesi di illegittimità, e dunque concerne automaticamente, con la verifica del vizio allegato, anche l’eventuale inesistenza del vizio. Anzi, la norma introduce un automatico elemento aggiuntivo all’ufficio del giudice amministrativo, il quale – in una più stretta relazione con l’azione amministrativa - ora deve sempre valutare se ricorrono le circostanze della disposizione. L’art. 21-octies, comma 2, è norma processuale perché non tocca la configurazione sostanziale della validità del provvedimento, ma concerne un atto processuale, cioè l'accertamento ad opera del giudice circa il “contenuto dispositivo dell'atto” e le altre condizioni previste dalla disposizione (es. Cons. Stato, VI, 26 ottobre 2005, n. 5969; VI, 16 maggio 2006, n. 2763; VI, 7 luglio 2006, n. 4307, VI, 11 settembre 2006, n. 5260; VI, 21 settembre 2006, n. 5547; VI, 17 ottobre 2006, n. 6192, 6193 e 6194; VI, 4 settembre 2007, n. 4614; contra V, 19 marzo 2007, n. 1307): il che la rende applicabile anche ai giudizi pendenti su atti precedenti la l. n. 15 del 2005. Nondimeno, da questo non discenda la sottrazione al ricorrente dell’interesse al ricorso, giacché egli conserva intatta la sua facoltà di domandare giustizia contro un atto che è e resta pur sempre, sul piano sostanziale, illegittimo e non meramente irregolare Questa illegittimità per violazione di legge è e permane tale anche se al suo accertamento, a dette condizioni, non consegue l’annullamento giudiziale (la fattispecie è diversa da quella comune della conversione del contratto nullo, art. 1424 Cod. civ. - che ben si dubita applicabile al contratto annullabile - e che sostituisce al contratto invalido uno valido): diversamente la norma sarebbe sospettabile di contrasto con l’art. 113 Cost.. Con questa tecnica si precludono caducazioni giudiziali inutili quanto a cura concreta degli interessi pubblici e a disposizione finale del bene della vita, e si dà luogo, al loro posto, a declaratorie di illegittimità produttive, se del caso, di altri e diversi effetti satisfativi: utilità strumentali o finali sul piano amministrativo, altre tutele su quello giudiziario.Formalmente, il contenuto della decisione sarà dunque di un rigetto del petitum di annullamento, che segue un accertamento di illegittimità destinato a formare parte del contenuto precettivo della sentenza, comunque utile per quelle finalità riparatorie o reintegrative diverse dall’annullamento giudiziale. La presunta certezza della reiterazione dell’atto emendato dal vizio formale preclude un annullamento che – contro i principi di economicità ed efficienza - sarebbe inutilter datum e causerebbe solo costi e aggravi di tempi per l’azione amministrativa, cioè un danno nella cura dell’interesse pubblico, senza al fondo diversamente operare sul bene della vita conteso. Del resto, è proprio delle società postindustriali a crescente giurisdizionalizzazione che l’ottimizzazione delle risorse organizzative divenga, anche nella giustizia, esigenza di prima importanza, tale da prevalere sulle pronunce prive di un’utilità dispositiva effettiva: e questa è l’esigenza reale cui risponde la disposizione in esame. * * * Sent n. 4414 del 17/09/2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione, ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n.r.g. 3669/2007, proposto da SOC. IMMOBILIARE VESUVIANA NUOVA S.R.L., in persona dell’amministratore unico pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv.to Giovanni Ranalli ed elettivamente domiciliati in Roma, Via delle Carrozze, 3 presso lo studio di detto legale; contro - REGIONE UMBRIA, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv.to Paola Manuali ed elettivamente domiciliata in Roma, Via Maria Cristina, 8 presso lo studio dell’Avv. Goffredo Gobbi; e nei confronti - COMUNE DI CASTEL VISCARDO, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Mario Busiri Vici ed elettivamente domiciliato in Roma, Viale G. Mazzini, 11 presso lo studio dell’avv. Pasquale Di Rienzo; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria n. 122/2007 del 13 febbraio 2007; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della Soc. Immobiliare Vesuviana Nuova srl nonché del Comune di Castel Viscardo; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Designato relatore, alla pubblica udienza del 14 marzo 2008, il consigliere Giuseppe Severini ed uditi, altresì, gli avvocati Guerra, per delega di Ranalli, Gobbi, per delega di Manuali, e Di Rienzo, per delega di Busiri Vici, come da verbale d’udienza; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO La sentenza impugnata, nel ricostruire la vicenda, ha rilevato che la Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l. era titolare dal 1996 di una concessione quindicennale per lo sfruttamento dell'acqua termominerale "Fonti di Tiberio", per 297 ettari in territorio di Castel Viscardo (Terni). Per il disciplinare, l'impianto andava ultimato e messo in esercizio entro il 24 marzo 2000. Nondimeno, il 30 dicembre 1999 la società domandò alla Regione Umbria una proroga, assumendo di non aver completato i lavori per una, a suo dire, causa di forza maggiore consistente in un pignoramento immobiliare su quei beni. La Regione negò la proroga con determinazione dirigenziale 28 giugno 2000, n. 5362 (non impugnata), ritenendo la giustificazione [di non aver completato i lavori per una, a suo dire, causa di forza maggiore consistente in un pignoramento immobiliare] non fondata e la mancata esecuzione dei lavori presupposto di decadenza. La stessa Regione, con determinazione dirigenziale 10 gennaio 2001, n. 39 (anche questa non impugnata), preso atto delle controdeduzioni, accordò poi in via eccezionale e condizionatamente all'ottemperanza degli impegni presi una proroga di due anni (sino al 24 marzo 2002) per il completamento dei lavori. Perciò sospese la procedura di decadenza. La determinazione affermava che la proroga del termine per i lavori non esonerava dal pagamento del canone di concessione e ribadiva che la concessionaria era debitrice del canone per il 2000 (di lit. 24.380.000) che andava versato. Infine ordinava alla concessionaria di rinnovare la garanzia fideiussoria fino al 24 marzo 2002. Con raccomandata 3 maggio 2001, prot. 9898/IA la Regione contestò alla concessionaria il mancato pagamento del canone e il mancato invio della nuova polizza fideiussoria, intimandole di curare gli adempimenti entro dieci giorni dal ricevimento della lettera. Infine, con ulteriore determinazione dirigenziale n. 5848 del 29 giugno 2001 (impugnata), la Regione prese atto che la precedente nota non aveva avuto riscontro, dichiarando la decadenza della concessione per l'inadempimento del canone di concessione. L’Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l. ricorse così al Tribunale amministrativo per l’Umbria contro l’atto di decadenza. La Regione resistette e il Comune di Castel Viscardo spiegò intervento ad opponendum, interessato alla individuazione di un nuovo concessionario che intraprendesse efficacemente lo sfruttamento delle sorgenti. Il Tribunale amministrativo respinse il ricorso, affrontando le varie questioni nei termini che seguono. 1. Anzitutto, circa l'an debeatur [del canone] rilevò che nella determinazione n. 39 del 10 gennaio 2001 la Regione aveva affermato che il canone per il 2000 era dovuto perché era trascorso il primo triennio dalla concessione, di esonero. Il punto non era oggetto di contestazione ed era pacifico. Invero, la società sosteneva che quel canone non era dovuto con un altro argomento: il combinato disposto dell'art. 14, comma 3, e dell'art. 41, comma 6, l.r. Umbria 11 novembre 1987, n. 48 (norme per la ricerca, la coltivazione e l' utilizzo delle acque minerali e termali), per cui la sospensione dell'attività per riconosciuta causa di forza maggiore comporta l'esenzione dal canone: riconoscimento implicito nella determinazione 10 gennaio 2001, n. 39. Il Tribunale amministrativo ritenne la prospettazione non condivisibile. La valutazione della giustificatrice forza maggiore ha profili di discrezionalità e la relativa pronuncia ha i caratteri dell'atto autoritativo. La Regione sul punto si era pronunciata negativamente con la determinazione 28 giugno 2000, n. 5362, non impugnata, con cui riteneva non fondata la giustificazione [di non aver completato i lavori per una causa di forza maggiore consistente in un pignoramento immobiliare] e sottolineava la mancata esecuzione dei lavori [presupposto di decadenza], tanto da dare avvio alla procedura di decadenza: sicché quelle giustificazioni erano state respinte. La determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 aveva sì accordato la proroga, ma senza modificare il giudizio circa l'insussistenza della forza maggiore, e per altre considerazioni, tanto che la procedura di decadenza non era stata archiviata o ritirata, ma solo sospesa. La delibera 10 gennaio 2001, n. 39, richiamando la delibera n. 5362 del 2000, affermava che un pignoramento non giustifica il ritardo dei lavori, ribadiva l'estraneità della Regione alla procedura esecutiva e l'irrilevanza di questa nel rapporto concessorio, per la impignorabilità della sorgente e delle sue pertinenze; il protrarsi della procedura esecutiva non giustificava il ritardo dei lavori e del mancato sfruttamento e valorizzazione della risorsa. La proroga era stata dunque accordata in via di grazia e non perché la giustificazione venisse accettata. La proroga non è dunque base per l'esonero dal canone. La determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 contiene anche un’esplicita richiesta e sollecitazione al pagamento del canone del 2000. Il Tribunale amministrativo ha condiviso la valutazione negativa. La pendenza di un pignoramento immobiliare non impediva di proseguire l'attività sia perché era nullo, riguardando beni demaniali; sia perché il suo effetto era solo di vietare atti pregiudizievoli per la realizzazione del credito. 2. Circa gli ulteriori presupposti della decadenza, il Tribunale amministrativo – posto che per la l.r. n. 48 del 1987, art. 41, commi 1 e 4, il canone va corrisposto anticipatamente, entro il mese di marzo dell'anno di riferimento – ha precisato che il debito per il canone 2000 era esigibile e scaduto quando, con la determinazione 10 gennaio 2001, n. 39, la Regione ne confermò la spettanza. Trattandosi di scadenza ex lege, la concessionaria era per ciò solo in mora, senza bisogno di richiesta. Circa la questione delle necessità della previa diffida [ad adempiere all’obbligo di pagamento del canone], richiesta dall’art. 23, comma 1, lett. b) l.r. n. 48 del 1987 per pronunciare la decadenza per mancato pagamento del canone, il Tribunale amministrativo ha ritenuto che la richiesta di pagamento contenuta nella determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 sopperiva alla funzione propria della previa diffida, anche perché il debito era scaduto e l’interessata era in mora. Di più, quella richiesta di pagamento era stata formulata nell'ambito di un procedimento di decadenza già formalmente avviato e apparteneva a un contesto in cui la pronuncia di decadenza veniva solo sospesa (non: ritirata), a condizione che la concessionaria mantenesse i suoi impegni (fra cui il pagamento del canone). Peraltro, i caratteri della diffida si rinvengano nella lettera 3 maggio 2001, prot. 9898/IA, con cui fu imposto il termine ultimativo di dieci giorni. Vero è che la lettera 3 maggio 2001 non è prodotta in giudizio, ma i suoi contenuti sono esposti nelle premesse della determinazione impugnata n. 5848 del 29 giugno 2001 dove si afferma che quella lettera era pervenuta alla concessionaria il 9 maggio, sicché il termine scadeva il 19, e che ancora alla data della determinazione (29 giugno) non aveva avuto riscontro. Il Tribunale amministrativo ha concluso che a quel 29 giugno 2001 si erano perciò verificati i presupposti della decadenza: l'inadempimento del canone e la mancata ottemperanza alla diffida. La decadenza doveva dunque essere pronunciata, senza altra motivazione necessaria che l'esposizione delle circostanze di fatto dell’inadempimento: non occorreva in particolare una motivazione circa la rilevanza del pregiudizio per l'amministrazione, o l'essenzialità della prestazione omessa. 3. Era dunque irrilevante il diverso problema della mancata (o tardiva) presentazione della polizza fideiussoria, richiesta con la determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 e sollecitata con la lettera (o diffida) 3 maggio 2001. La ricorrente aveva dedotto che il provvedimento era viziato da errore di fatto, perché la polizza fideiussoria era stata rinnovata. Ma il Tribunale amministrativo ha osservato che il ricorso affermava la rinnovazione della polizza, non che la Regione ne fosse stata informata. Dal che tratto argomento per ritenere che in realtà la polizza non fosse stata trasmessa. In effetti, dalla fotocopia in giudizio sembrava desumersi che la polizza fosse stipulata il 26 maggio 2001, a termine intimato il 3 maggio ormai scaduto. 4. Quanto all’omessa formale contestazione dei motivi di decadenza, con invito a controdedurre [nel termine di trenta giorni], prescritta ad validitatem dall'art. 23, comma 2, l.r. n. 48 del 1987 – non resa superflua dal fatto che un procedimento di decadenza fosse già aperto e si trovasse sospeso -, non risultava adempiuta. Di una tale contestazione è [testualmente] essenziale l'indicazione dei motivi della [prospettata] decadenza; sicché il procedimento aperto con la contestazione di un solo motivo (il mancato completamento dei lavori) non poteva condurre alla dichiarazione di decadenza per diverso motivo, non contestato. Nondimeno, il Tribunale amministrativo ha ritenuto ricorrere le condizioni dell'art. 21-octies l. 7 agosto 1990, n. 241 (introdotto dall’art. 14 l. 11 febbraio 2005, n. 15). Infatti, la concessionaria era inadempiente al pagamento del canone e tale era rimasta malgrado richieste e diffide: perciò vi erano i presupposti della decadenza, della quale non restava che prender atto: assume infatti la giurisprudenza che la pronuncia di decadenza è un atto vincolato a carattere dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge (Cons. Stato, V, 30 maggio 1997, n. 57V, 22 giugno 1998, n. 911; V, 16 novembre 1998, n. 1615; IV, 26 maggio 2006, n. 3196.). In una simile situazione, la comunicazione dell’avvio del procedimento di decadenza non poteva dar tempo alla concessionaria di sanare in extremis l’inadempienza, ma solo di consentirle di presentare controdeduzioni, cioè di esporre elementi a proprio sostegno. Nondimeno, i presupposti della decadenza si erano integrati, sicché nulla di risolutivo avrebbe potuto dedurre la concessionaria e i suoi argomenti sarebbero stati i medesimi, infondati, esposti nel giudizio. Contro questa sentenza ha presentato appello la Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l, con intervento ad opponendum del Comune di Castel Viscardo. DIRITTO Le doglianze dell’appellante Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l. sono le seguenti. 1.a. Erra la sentenza quando, pur riconoscendo la violazione dell'art. 23, comma 2, l.r. Umbria 11 novembre 1987, n. 48 (norme per la ricerca, la coltivazione e l' utilizzo delle acque minerali e termali) - che vuole che la decadenza dalla concessione mineraria sia preceduta dalla contestazione dei motivi, con termine di trenta giorni per controdeduzioni – ritiene nondimeno applicabile l'art. 21-octies [comma 2] l. 7 agosto 1990, n. 241 (introdotto dall’art. 14 l. 11 febbraio 2005, n. 15), sulla non annullabilità del provvedimento formalmente viziato quando palesemente, senza il vizio, il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso. In realtà per l’appellante la determinazione dirigenziale regionale n. 5848 del 29 giugno 2001 (che, senza previa contestazione né termine per controdeduzioni, aveva dichiarato la decadenza della concessione mineraria per omesso pagamento del canone), viola il principio del contraddittorio (previa contestazione degli addebiti e l'assegnazione di un termine per controdeduzioni). Non supplisce il fatto – pur riconosciuto dalla sentenza come viziante - che, con la (precedente, e non impugnata) determinazione dirigenziale 28 giugno 2000, n. 5362, la Regione abbia contestato i motivi di decadenza per violazione dell'art. 14, comma 2 l.r. n. 48 del 1987 riguardo alla mancata esecuzione dei lavori nei tempi e modi previsti dal programma dei lavori. In realtà, il motivo di decadenza su cui si basa l’atto impugnato è invero un altro, cioè la mancata corresponsione del canone minerario. L’appellante rileva poi che potuto pagare il canone contestato. L’applicazione dell'art. 21-octies è comunque per l’appellante erronea per i seguenti motivi, tutti basati sul concetto che la norma delinei uno schema di vera e propria eccezione: l’amministrazione non ha sollevato questa eccezione; non vale a tale proposito considerare che l’eccezione non poteva essere formulata perché la memoria regionale di trattazione è del giugno 2003, mentre l'art. 21-octies è stato introdotto nel 2005,: infatti la richiesta sarebbe potuta essere oggetto di memoria per l’udienza di merito; l’amministrazione non ha dimostrato che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; il vizio concerne i motivi e l’art.21-octies va applicato con cautela in un caso siffatto, sia perché è difficile inquadrare il vizio della motivazione fra quelli procedimentali e formali, sia perché la necessità della motivazione è dominante quando si incida autoritativamente sulla sfera giuridica: diversamente, in nome del principio di efficienza, con l’art.21-octies vi sarebbe lesione dei principi di imparzialità e trasparenza; per il principio tempus regit actum, l'art. 21-octies (comma 2) l. 7 agosto 1990, n. 241, in quanto introdotto dall’art. 14 l. 11 febbraio 2005, n. 15), non era era applicabile al provvedimento impugnato, che è del 2001. l’atto di decadenza non pare avere natura di atto vincolato, perché si basa su una valutazione del comportamento di inadempienza che la stessa sentenza qualifica “discrezionale”. 1.b. Rileva il Collegio che l’impugnata sentenza ha considerato che la concessionaria Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l. era oggettivamente inadempiente all'obbligo di pagamento del canone e tale era rimasta anche dopo reiterate richieste e diffide regionali. Perciò permanevano i presupposti della decadenza, della quale alla Regione non restava che prender atto con una pronuncia dichiarativa e non costitutiva. Pertanto la comunicazione dell’avvio del procedimento non poteva dare all’interessata tempo di sanare in extremis l’inadempienza, ma solo di consentirle di presentare controdeduzioni, cioè di esporre elementi a suo sostegno. I presupposti della decadenza però si erano già integrati, sicché nulla di risolutivo avrebbe potuto dedurre la concessionaria e i suoi argomenti sarebbero stati i medesimi, infondati, esposti nel giudizio. In un tale quadro, la Sezione ritiene che l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 l. 11 febbraio 2005, n. 15, sia corretta. A tal proposito va anzitutto confutato l’assunto da cui muove l’appellante, che detta disposizione delinei un meccanismo eccezione processuale in senso stretto, per cui sarebbe precluso al giudice amministrativo accertare d’ufficio quegli elementi ostativi all’annullamento. La tesi, non priva di riscontri in dottrina, merita una più approfondita disamina. Vale rammentare che l’eccezione - in senso stretto – esprime una privativa all’interno del processo: è, in un giudizio civile, la facoltà processuale riservata al convenuto con cui egli manifesta la sua determinazione di rispondere allegando fatti impeditivi, estintivi o modificativi dei fatti dedotti da chi domanda giustizia (cfr. art. 2697, secondo comma, Cod. civ.). I diritti soggettivi nascono dai fatti e quel giudice accerta anzitutto fatti, quindi l’eccezione corrisponde a una scelta libera e riservata del convenuto e perciò rappresenta una preclusione all’indagine officiosa del giudice: corrisponde al principio dispositivo che regola quel processo ed è una proiezione processuale dell’autonomia, dell’autodeterminazione e dell’autoresponsabilità proprie del diritto privato. È per questo che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato vizia la decisione per ultrapetizione quando il giudice si pronuncia d'ufficio “su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti” (art. 112 Cod. proc. civ.). Verrebbe infatti allargato l’ambito della cognizione indipendentemente dalla volontà degli interessati, che soli possono decidere dei loro diritti dedotti in giudizio e dell’oggetto del giudizio (cfr. artt. 2907 Cod. civ., 99 e nuovo 167 Cod. proc. civ.). Tutto questo avviene perché nel processo civile i fatti che perimetrano il potere decisorio del giudice solo quelli rilevati dalle parti. Non c’è ultrapetizione solo quando è rilevata d’ufficio un’eccezione in senso lato, vale a dire quella che – nella ricerca dialettica della verità processuale - sarebbe una semplice obiezione difensiva che nega l’esistenza del fatto o dei suoi effetti. Questo è lo schema paradigmatico del giudizio civile. Si deve ora vagliare se, nel processo amministrativo di impugnazione di un provvedimento, vi sia la possibilità di configurare un’eccezione in senso stretto. Orbene, per ciò che attiene la giurisdizione generale di legittimità e in essa l’azione di annullamento, la funzione del processo amministrativo è altra da quella del processo civile di merito, perché è orientata non ad accertare solo fatti materiali e a qualificarli, ma piuttosto a vagliare la legittimità di atti pubblici. Il giudizio di legittimità è essenzialmente un giudizio di diritto su un’ipotesi di illegittimità, e dunque concerne automaticamente, con la verifica del vizio allegato, anche l’eventuale inesistenza del vizio. Altrimenti detto, analogamente al giudizio civile di cassazione, nel processo amministrativo impugnatorio non è configurabile l’eccezione in senso stretto, perché oggetto del giudizio non è solo l’accertamento di fatti, ma l’accertamento della qualificazione di diritto oggettivo circa la denunciata invalidità di atti giuridici. La conoscenza dei fatti è solo incidentale e in relazione all’affermata invalidità dell’atto, quali elementi o presupposti di questa. Di fronte a questo tema, non è dato riservare all’amministrazione resistente l’introdurre fatti diversi da quelli utilizzati per la formazione l’atto o che caratterizzano la sua vicenda. Perciò nel processo amministrativo di annullamento il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato vincola il giudice non ai fatti allegati, ma all’identificazione di tale oggetto e dei motivi di impugnazione. È il caso di sottolineare che queste conclusioni sono relative al giudizio amministrativo di annullamento e non riguardano le azioni di risarcimento, di cui all’art. 7 l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come mod. dall’art. 7 l. 21 luglio 2000, n. 205. Di queste caratteristiche non tiene conto la prospettazione dall’appellante, che ritiene la valutazione di cui all’art. 21-octies, comma 2, oggetto di una previa necessaria eccezione dell’amministrazione. Queste considerazioni sulla struttura e sulla funzione di questo processo sarebbero dirimenti per non accogliere una tale prospettazione. Se ne aggiungono, nondimeno, di ulteriori che riguardano la specifica previsione della nuova disposizione in esame. Nel recente periodo di vigenza della nuova norma, l’attenzione si è concentrata sulla sua applicabilità ai provvedimenti pregressi, sicché si è dibattuto se si tratti di norma processuale o di norma sostanziale, diversamente combinandosi, nei due casi, con la regola tempus regit actus: in senso favorevole all’applicazione nel primo, contrario nel secondo. La dominante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato - che il Collegio condivide - si è espressa nel senso che l’art. 21-octies, comma 2, è norma processuale perché non tocca la configurazione sostanziale della validità del provvedimento, ma concerne un atto processuale, cioè l'accertamento ad opera del giudice circa il “contenuto dispositivo dell'atto” e le altre condizioni previste dalla disposizione (es. Cons. Stato, VI, 26 ottobre 2005, n. 5969; VI, 16 maggio 2006, n. 2763; VI, 7 luglio 2006, n. 4307, VI, 11 settembre 2006, n. 5260; VI, 21 settembre 2006, n. 5547; VI, 17 ottobre 2006, n. 6192, 6193 e 6194; VI, 4 settembre 2007, n. 4614; contra V, 19 marzo 2007, n. 1307): il che la rende applicabile anche ai giudizi pendenti su atti precedenti la l. n. 15 del 2005, come quello in esame. Nondimeno, ritiene la Sezione che da questo non discenda la sottrazione al ricorrente dell’interesse al ricorso, giacché egli conserva intatta la sua facoltà di domandare giustizia contro un atto che è e resta pur sempre, sul piano sostanziale, illegittimo e non meramente irregolare (cfr. art. 21-nonies, comma 2: si convalidano gli atti annullabili, art. 1444 Cod. civ., cioè illegittimi, non quelli irregolari). Questa illegittimità per violazione di legge è e permane tale anche se al suo accertamento, a dette condizioni, non consegue l’annullamento giudiziale (la fattispecie è diversa da quella comune della conversione del contratto nullo, art. 1424 Cod. civ. - che ben si dubita applicabile al contratto annullabile - e che sostituisce al contratto invalido uno valido): diversamente la norma sarebbe sospettabile di contrasto con l’art. 113 Cost.. Per quanto la novella del 2005 sia stata inserita in una cornice normativa sostanziale (la l. n. 241 del 1990 sul procedimento: dove peraltro figurano disposizioni manifestamente processuali, ad es. art. 2, comma 5; art. 11, comma 5; art. 25, commi 5 ss.), la tecnica dell’art. 21-octies, comma 2, non è - come mostra la formulazione incentrata sull’annullamento - di agire sull’amministrato e di restringere il suo diritto alla tutela giurisdizionale, sottraendone la condizione del ricorso in cui si proietta questo bisogno di giustizia e preparando così un giudizio negativo in limine sull’ammissibilità del gravame. Strutturalmente, infatti, non si tratta di una valutazione preliminare, perché implica un accertamento di merito sull’atto e sull’azione amministrativa. Funzionalmente, non va dimenticato che la risposta alla domanda di giustizia può manifestarsi con richieste anche diverse dall’annullamento, e su queste altre risposte non risulta una volontà preclusiva della legge. La norma, come rivela la sua formulazione, è indirizzata piuttosto al giudice, perché introduce un suo potere-dovere decisorio aggiuntivo, che valuta nel merito la fondatezza dei motivi di impugnazione e poi mette in relazione l’ipotetico effetto di annullamento con la manifestazione sostanziale dell’azione amministrativa. Con questa tecnica si precludono caducazioni giudiziali inutili quanto a cura concreta degli interessi pubblici e a disposizione finale del bene della vita, e si dà luogo, al loro posto, a declaratorie di illegittimità produttive, se del caso, di altri e diversi effetti satisfativi: utilità strumentali o finali sul piano amministrativo, altre tutele su quello giudiziario. Formalmente, il contenuto della decisione sarà dunque di un rigetto del petitum di annullamento, che segue un accertamento di illegittimità destinato a formare parte del contenuto precettivo della sentenza, comunque utile per quelle finalità riparatorie o reintegrative diverse dall’annullamento giudiziale. Siffatta collocazione “processuale” della fattispecie dell’art. 21-octies, comma 2, nel sistema dell’ordinamento (piuttosto che nell’estrinseca topografia di una legge) identifica la categoria del provvedimento illegittimo ma non giudizialmente annullabile, o meramente illegittimo. Questa qualificazione emerge ex post, a seguito del processo (che non esiste cioè sul piano empirico della mera amministrazione). Non sfugge al Consiglio di Stato la sua importanza sul piano della legalità complessiva dell’azione amministrativa. Quest’ultima potrebbe risultare vulnerata da una configurazione “sostanziale”, cioè ante iudicium, che vedesse in questo dispositivo una riduzione del rilievo del vizio di illegittimità per violazione di legge nell'ambito del procedimento, e una cedevolezza delle prescrizioni formali sul provvedimento rispetto al particolare contenuto del provvedimento. L’effetto sarebbe, insieme alla privazione di conseguenze negative o riparatorie (gli altri eventuali effetti satisfativi di cui s’è detto, ovvero l’autotutela dell’amministrazione attiva), di omologare le illegittimità “minori” alle semplici irregolarità, riducendo lo spazio dell’illegittimità in urto al criterio che le forme garantiscono la sostanza e all’obiettivo di conformazione dell’azione amministrativa alla legalità anche formale. Ne deriverebbero pericolosi effetti sul rapporto tra amministrazione ed amministrati, per non dire della violazione dell’art. 113 Cost.. Il modello di comportamento per gli amministratori pubblici ne risentirebbe negativamente, incentivando approssimative condotte asseritamene “sostanzialistiche”, quando non l’incuria delle forme volute dalla stessa l. n. 241 e dalle altre: si pensi all’incidenza di queste conseguenze sull’accentuato (art. 3) dovere di motivazione o su quello di imputazione formale dell’atto. La configurazione processuale agisce piuttosto distinguendo il più ampio concetto di giudizio di impugnazione da quello di giudizio di annullamento: per modo che dall’impugnazione, per quanto orientata come petitum all’annullamento, possa per quella causa petendi derivare d’ufficio la conversione dell’azione in un mero accertamento di illegittimità, produttivo di - ove siano domandate, e in una prospettiva di piena giurisdizione - altre conseguenze di giustizia che non la caducazione giudiziale dell’atto (oltre che dell’additare all’amministrazione attiva i presupposti per un annullamento d’ufficio, o di una convalida, ai sensi dell’art. 21-nonies). In sintesi, nel quadro della ridefinizione del ruolo e della strumentazione del giudice amministrativo recata dalle recenti riforme, ci si trova qui di fronte ad un nuovo potere-dovere giudiziale, costituito dalla legge e non dall’amministrazione resistente, e sottratto alla disponibilità di questa (non a una sorta di malcelato potere amministrativo “negativo”, che si manifesterebbe attraverso la mera scelta processuale di sollevare l’obiezione, non esternata che dal suo accadimento e senza dar conto delle valutazioni che vi presiedono). Questo dovere non si arresta di fronte all’inerzia o al silenzio dell’amministrazione nel sollevare l’argomento, ed è di contenuto autolimitativo del potere generale di annullamento giudiziale ed incentrato sul principio di concreta utilità: applica ai provvedimenti giudiziari la regola utile per inutile non vitiatur, finalizzandola alla conservazione dell’atto per economia generale, vuoi dei processi su quel rapporto, vuoi per la complessiva azione amministrativa, passata e futura. La presunta certezza della reiterazione dell’atto emendato dal vizio formale preclude un annullamento che – contro i principi di economicità ed efficienza - sarebbe inutilter datum e causerebbe solo costi e aggravi di tempi per l’azione amministrativa, cioè un danno nella cura dell’interesse pubblico, senza al fondo diversamente operare sul bene della vita conteso. Del resto, è proprio delle società postindustriali a crescente giurisdizionalizzazione che l’ottimizzazione delle risorse organizzative divenga, anche nella giustizia, esigenza di prima importanza, tale da prevalere sulle pronunce prive di un’utilità dispositiva effettiva: e questa è l’esigenza reale cui risponde la disposizione in esame. Si tratta dunque di un secondo giudizio di accertamento, successivo a quello di verifica dell’illegittimità e che verte su presupposti della norma, ma preventivo circa l’utilità della decisione costitutiva di annullamento. Senza scendere ad una valutazione di opportunità del giudizio - e dunque alla discrezionalità nell’an della risposta di giustizia propria di alcuni ordinamenti -, questo potere si incentra sul riscontro in concreto di alcuni indicatori legali, presuntivi dell’inutilità della decisione. Per evitare incostituzionali discrezionalità, una siffatta valutazione dev’essere improntata ad una diretta applicazione dei criteri di legge: perciò il giudice amministrativo ne è dominus senza esserne condizionato dalla strategia processuale dell’amministrazione e dalla sua concreta volontà di invocare il caso. Insomma, l’operatività dell’art. 21-octies, comma 2, non è subordinata ad un’eccezione non rilevabile d'ufficio. Anzi, la norma introduce un automatico elemento aggiuntivo all’ufficio del giudice amministrativo, il quale – in una più stretta relazione con l’azione amministrativa - ora deve sempre valutare se ricorrono le circostanze della disposizione. Così stando le cose, vengono meno le censure alla sentenza basate sul concetto che l’art. 21-octies, comma 2, abbia introdotto un dispositivo di eccezione in senso stretto. Per conseguenza, nel caso di specie: non rileva che l’amministrazione non abbia eccepito quanto previsto dalla disposizione e che non abbia dimostrato che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato; non rileva – come già detto – che l'art. 21-octies sia stato introdotto nel 2005, cioè dopo l’atto impugnato o dopo la costituzione dell’amministrazione in giudizio. A queste considerazioni va aggiunto che: non è esatta l’affermazione dell’appellante che il vizio concerne i motivi del provvedimento (mentre è corretto affermare che l’art. 21-octies vada applicato con cautela nei casi di vizi della motivazione intesi come vizi procedimentali e formali, perché per l’efficienza si sacrificherebbero imparzialità e trasparenza). Qui infatti non sussiste difetto di motivazione del provvedimento di decadenza, ma vizio meramente formale per mancanza di un atto preparatorio, la “previa contestazione dei motivi” in funzione di contraddittorio procedimentale prevista dall’art. 23, comma 2, l.r. Umbria n. 48 del 1987. Per questa finalità partecipativa un tale atto è funzionalmente assimilabile alla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 l. n. 241 del 1990. Ne consegue che la fattispecie dell’art. 21-octies, comma 2, è quella della seconda parte della norma (illegittimità per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento). l’indagine verte sulla dimostrazione che il contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Se si considera che il citato art. 23, comma 1, configura la decadenza come atto non discrezionale (come mostra l’uso dell’indicativo presente: “… pronuncia la decadenza dal permesso o dalla concessione, salvi i casi di forma maggiore, quando il titolare […] b) […] non abbia, nonostante diffida, adempiuto agli obblighi previsti dagli artt. […] 41, commi […] secondo” [pagamento anticipato del canone annuo di concessione]), posto il pacifico inadempimento al pagamento del canone, la dimostrazione che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso è già in re ipsa (senza che l’amministrazione debba soddisfare un onere dimostrativo). Che non ricorra il caso di forza maggiore è insito in quanto tra breve si vedrà. 2. Occorre vedere, passando alle altre censure dell’appello, se bene ha giudicato il Tribunale amministrativo nel ritenere esaurita la sequenza procedimentale del provvedimento di decadenza (pronunciato, vale ricordare, a causa del mancato pagamento del canone di concessione). Secondo l’art. 23 della rammentata l.r. Umbria 11 novembre 1987, n. 48, quel provvedimento va preceduto dai seguenti atti: (art. 23, comma 1, lett. b)) una diffida ad adempiere gli obblighi inadempiuti, tra cui qui quello (art. 41, comma 2) di pagamento del canone di concessione. È questo – osserva il Collegio - lo spazio temporale di grazia per adempiere, durante il quale non può farsi luogo alla pronuncia perché ancora l’inadempimento non può essere considerato definitivo. (art. 23, comma 2) una previa contestazione dei motivi di decadenza [gli stessi per cui, evidentemente, poi si pronuncia la decadenza] con termine di trenta giorni per controdedurre. È questo – osserva il Collegio – uno spazio temporale a difesa (vale a dire, per addurre eventuali giustificazioni all’inadempimento), durante il quale l’inadempimento è gia considerato definitivo e consumato (diversamente, sarebbe inutile a realizzare questo effetto la previa diffida), ma la pronuncia è comunque precauzionalmente sospesa per verificare se non sussatino fatti giustificativi. È logico che questa opportunità difensiva sia – come sostanzialmente assume la sentenza impugnata - regolata dal principio del raggiungimento dello scopo, per cui se le difese (in relazione a quei motivi) sono state già presentate, la funzione garantistica dello spazio in questione è già soddisfatta e non inibisce la speditezza del procedimento. E questo è ciò che nella specie è avvenuto. Riguardo al tema sub a), il Collegio ritiene corretto l’argomento del Tribunale amministrativo, secondo il quale i caratteri della diffida sono in realtà rinvenibili nella lettera regionale 3 maggio 2001, prot. 9898/IA, che imponeva un termine di dieci giorni per il pagamento del canone e l’invio della polizza fideiussoria. In punto di prova, basta osservare che, anche se questa lettera non è acquisita al giudizio, i suoi contenuti sono menzionati nelle premesse della impugnata determinazione 29 giugno 2001, n. 5848, dove si dice che era pervenuta alla concessionaria il 9 maggio 2001 e che ciò malgrado non aveva avuto riscontro ancora a quel 29 giugno. Si aggiunga l’esattezza del rilievo, fatto dalla sentenza, che per gli art. 41, commi 1 (rectius: 2) e 4, l.r. Umbria n. 48 del 1987, il canone va corrisposto anticipatamente entro il mese di marzo dell'anno di riferimento, sicché il debito per il canone 2000 era, con mora ex lege, scaduto dal marzo 2000: molto prima che, con la non contestata determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 di proroga biennale, la Regione ne confermasse il debito. È il caso di sottolineare che, se la società ricorrente avesse davvero inteso affermare che il canone per il 2000 non era dovuto a norma dell’art. 41 comma 6 e dell’art. 14, comma 3 (come ora afferma), avrebbe dovuto contestare in tempo detto provvedimento in parte qua e non farvi - come vi ha fatto nella sua autoresponsabilità - acquiescenza. Avrebbe così tempestivamente posto a un giudice la questione se ricorreva il caso della “forza maggiore” per la sospensione dell’attività (di esercizio della concessione: in verità nemmeno iniziata) del comma 3 dell’art. 14, ovvero quello degli “eccezionali e fondati motivi” per la sospensione dei lavori programmati, del comma 2: qualificazione che per di più – a parte ogni fondamento di fatto - la società interessata pare utilizzare promiscuamente (invocando il comma 2 quando si tratta di giustificare col pignoramento la sospensione dei lavori, il comma 3 quando si tratta di reclamare la sospensione del canone). Analogamente si deve dire della mancata impugnazione della determinazione 28 giugno 2000, n. 5362 (la cui efficacia non si vede perché debba essere esaurita), che considerava non fondata la giustificazione di mancato completamento dei lavori per forza maggiore da pignoramento immobiliare, e prospettava la mancanza come presupposto di decadenza dando avvio alla relativa sequenza (di questa determinazione, la successiva determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 reiterava il giudizio negativo, motivando che un pignoramento non giustifica il ritardo dei lavori, tanto più se su di un impignorabile bene demaniale, sicché il ritardo era ingiustificato insieme al mancato sfruttamento e valorizzazione della risorsa). Nel merito, si può anche rilevare che queste considerazioni negative della Regione erano ineccepibili. Si aggiunge che - contrariamente a quanto afferma l’appellante - la detta determinazione 10 gennaio 2001, n. 39, nel formulare la richiesta di “adempimento dell'obbligo di pagamento del canone minerario di L. 24.380.000”, intende evidentemente riferirsi a quello del 2000, posto che quello del 2001 sarebbe stato dovuto solo dal successivo marzo 2001 (art. 41, comma 4). Circa l’essenzialità del termine per la diffida, è il caso di rilevare che, anche se la determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 [di proroga di due anni] manca dell'indicazione testuale di un termine ultimativo per l'adempimento, nondimeno il passaggio di ben ulteriori sei mesi e oltre (al momento della pronuncia di decadenza) rende di suo definitivo l’inadempimento e dunque raggiunge lo scopo del termine. Non ha comunque fondamento che la non impugnata determinazione dirigenziale di proroga 10 gennaio 2001, n. 39 abbia implicitamente disposto, in forza dell’art. 42, comma 6, che non dovevano essere pagati i canoni minerari: il provvedimento dice testualmente l’opposto e non si vede come si possa affermare il contrario. Riguardo al tema sub b), circa la previa contestazione dei motivi di decadenza [gli stessi per cui, evidentemente, poi si pronuncia la decadenza] con trenta giorni per controdedurre, questa finalità avrebbe potuto essere considerata raggiunta se l’opportunità di presentare le difese fosse stata in relazione al motivo di mancato pagamento del canone. La determinazione dirigenziale di decadenza impugnata, facendo riferimento alla mancata risposta alla lettera 3 maggio 2001, a quello (mancato pagamento del canone) si riferiva. Nondimeno, poiché si tratta di un adempimento formale, tutt’al più equiparabile all’avvio del procedimento, e poiché – come si è visto – il provvedimento non poteva essere discrezionale, a causa del fatto dell’inadempimento all’obbligo del pagamento del canone (obbligo persistente e anche formalmente non più giustificabile, non essendo stata impugnata sul punto la determinazione dirigenziale 10 gennaio 2001, n. 39 - di proroga biennale - che ribadiva che la concessionaria era debitrice del canone per il 2000), opera la fattispecie dell’art. 21-octies, comma 2, sia prima che seconda parte l. n. 241 del 1990. Vero è che la Regione, con la determinazione dirigenziale 28 giugno 2000, n.5362, aveva avviato la procedura di decadenza sulla base dell’asserita violazione dell'art. 14, comma 1 (abbandono ed incuria della sorgente), nonché per mancata esecuzione dei lavori. Nondimeno non è mancata, con gli atti ricordati, la contestazione del mancato pagamento del canone, su cui poi ha poggiato il provvedimento decadenziale – sicché il principio della partecipazione difensiva non è stato leso. Ne consegue che non può essere disposto l’annullamento, per quanto sussista l’illegittimità dell’atto a causa di siffatta omissione della contestazione. Corretto è dunque quanto assunto dalla sentenza: al 29 giugno 2001 il presupposto sostanziale dell’inevitabile decadenza era presente e questa non poteva che essere pronunciata, non sussistendo il più volte invocato fatto giustificativo. A fronte di ciò, che delinea una base sufficiente per le cessazione della concessione, diviene irrilevante la questione della mancata o tardiva presentazione della polizza fideiussoria, (richiesta con la determinazione 10 gennaio 2001, n. 39 e sollecitata con la lettera 3 maggio 2001). La decadenza doveva dunque essere pronunciata, senza altra motivazione necessaria che l'esposizione delle circostanze di fatto dell’inadempimento: non occorreva in particolare una motivazione circa la rilevanza del pregiudizio per l'amministrazione, o l'essenzialità della prestazione omessa. 3. Assume l’appellante che è erroneo affermare, come fa la sentenza, che il canone del 2000 non poteva essere oggetto di esonero perché si tratta di valutazione in contrasto con l'art. 14, in combinazione con l'art. 41, comma 6, della l.r. n.48 del 1987. Infatti l'art. 14, comma 2, dispone che la Giunta Regionale, se ricorrono eccezionali e fondati motivi, possa consentire la sospensione dei lavori programmati o la loro graduale esecuzione. L’art. 41, comma 6, afferma che la sospensione dei lavori accordata a norma dell'art. 14 comporta l'esenzione dall'obbligo del pagamento del canone, quando ne derivi la sospensione dalle attività di utilizzazione dell'acqua minerale e termale. Nondimeno, osserva ancora il collegio, la determinazione dirigenziale 10 gennaio 2001, n. 39, non impugnata, che aveva accordato condizionatamente all'ottemperanza degli impegni presi una proroga biennale per il completamento dei lavori, se da un lato aveva sospeso la procedura di decadenza, dall’altra aveva affermato che la proroga stessa non esonerava dal pagamento del canone di concessione e ribadiva che la concessionaria era debitrice del canone di lit. 24.380.000, da versare. Questo canone non poteva che essere, come detto, quello del 2000. Questo è l’assetto contro cui l’interessata non ha inteso reagire e che dunque regola la fattispecie concreta. 4. Circa la presentazione della polizza fideiussoria richiesta con la [stessa] determinazione 10 gennaio 2001, n. 39, l’appellante lamenta eccesso travisamento ed erronea valutazione. Infatti, la Immobiliare Vesuviana ha adempiuto alla prescrizione regionale, provvedendo al rinnovo della polizza fideiussoria con scadenza rateale al 14 marzo 2002. E se anche la stipulazione fosse stata di poco tardiva rispetto al termine della lettera del 3 maggio, il merto adempimento tardivo non è presupposto per la decadenza perché il termine non era essenziale. L’argomento è inconcludente. Non è infatti la mancata presentazione della polizza ad avere determinato la decadenza. A parte questo, corretta è comunque l’osservazione del primo giudice che la Regione non risulta ne sia stata tempestivamente informata (dal che l’argomento per ritenere che in realtà la polizza non era stata trasmessa), e altresì che dalla fotocopia in giudizio sembra desumersi che sia stata stipulata il 26 maggio 2001, cioè dopo la scadenza del termine del 3 maggio. 5. Quanto all’intervento ad opponendum del Comune di Castel Viscardo che si assume tardivamente depositato (sedici giorni dopo la notifica) e circa il quale si eccepisce che il Comune non è titolare di un interesse qualificato per proporre intervento, va rilevato che il Comune, rappresentando la collettività territoriale e curandone gli interessi (art. 3, comma 2, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) evidentemente incisi dall’importanza economica dell’iniziativa, è da ritenere legittimato a questo ingresso nel processo, per quanto portatore di un interesse di fatto ad una tale rilevante iniziativa (cfr. Cons. Stato, VI, 7 marzo 1991, n. 136). Il termine per il deposito dell’intervento è di giorni venti dalla notifica (art. 22 l. n. 1034 del 1971), sicché è tempestivo. 6. L’appello va pertanto respinto e la sentenza di primo grado va confermata. Le spese giudiziali sia delle Regione Umbria che del Comune di Castel Viscardo, da liquidare per ciascuno in € 4.000 (quattromila), vanno poste a carico dell’appellante Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l. a norma dell’art 91 Cod. proc. civ.. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello. Condanna l’appellante Immobiliare Vesuviana Nuova s.r.l. alla rifusione delle spese processuali del Comune di Castel Viscardo, che liquida in € 4.000 (quattromila) e della Regione Umbria, che liquida in € 4.000 (quattromila). Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), nella camera di consiglio del 14 marzo 2008, con l'intervento dei Signori: Pres. Raffaele Iannotta Cons. Giuseppe Severini, estensore Cons. Caro Lucrezio Monticelli Cons. Aniello Cerreto Cons. Giancarlo Giambartolomei L’ESTENSORE IL PRESIDENTE f.to Giuseppe Severini f.to Raffaele Iannotta depositata in Segreteria il 17.09.2008
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